L’avrebbe ricordato più tardi, quanto aveva fame salendo le scale. Era una difesa personale, l’inconscio che la tormentava e la condannava a rivivere quei momenti come una colpa. Quando decise di non pensarci, era notte e sprofondò nell’oscurità grazie ad una pasticca. Allora il sogno giunse vivido. E lei, leggera e nuda, risalì quella scala.
Non era nuda, quel pomeriggio. Pioveva poco, quanto bastava a innervosirla. Aveva dimenticato a casa il suo flaconcino. Nessun aiuto alla stanchezza, alla voglia di spaccare tutto.
E dunque, perché non lasciarsi andare, non abbandonare ogni ritegno. Un appuntamento al buio. Come accettare caramelle da uno sconosciuto. Un condominio in piena città. L’eleganza di un luogo neutrale. L’impossibilità di essere rintracciata. Malediceva se stessa già posando il piede sul primo gradino. Almeno a qualcuno avrebbe dovuto dirlo. Una prostituta qualunque sarebbe stata più prudente. Ma lei era una prostituta? Bastava farsi pagare, per diventarlo? Ultimo piano, ultima porta, giù nella penombra della tappezzeria dorata. Vigliacca, si diceva, mentre il cuore impazziva. Neppure il coraggio dell’ascensore, neppure la sfrontatezza di incontrare occhi che l’avrebbero scrutata.
Poi la porta si era aperta. E neanche questo era esatto. Si era scostata dallo stipite. Lo rivedeva chiaramente nel sogno. Un debole “clac” e basta. La sua mano che spingeva il legno lucido. Un’ombra che dileguava lenta in fondo al corridoio. E lei, lì sulla soglia, pentita e indecisa. Ma all’improvviso l’ascensore in movimento, e il suo passo varcava il limite tra ciò che sembrava e ciò che era. Si era appoggiata alla porta, chiudendola, allargando le mani a ventosa. Per calmare il cuore. Per prendere respiro. Per attendere che lui la chiamasse. Invece aveva ascoltato il silenzio, sul sottofondo del suono arcano della pioggia. Deglutiva, seguendo l’alone soffuso che proveniva da dove lui era sparito. Si rese conto di camminare in punta di piedi. Di affacciarsi alla porta. Di nascondere le mani dietro la schiena, per tentare di fermarne il tremore. Erano fredde.
Lui era alla finestra. Era stato questo, a darle coraggio. Cosa poteva mai vedere, ad una finestra chiusa, con la tapparella abbassata? Non erano certo quei ritagli di luce a permettergli la visione di qualcosa al di là dei vetri. Anche lui aveva paura.
“Fa’ quel che vuoi.”
Le aveva detto. Le aveva detto lui. Per un attimo aveva avuto il dubbio di una voce levitata fin lassù dalla strada. O inventata dalla sua mente non sostenuta dal solito supporto chimico.
“Fa’ quel che vuoi.”aveva ripetuto.
Le era parso un rimbombo, come se dal vetro della finestra le parole fossero rimbalzate per raggiungerla in uno schiaffo. Allora si era mossa.
Le sembrava di averlo sempre fatto, tanto i suoi gesti erano densi di consuetudine. Un dèjà vu, che le dava il ritmo di una danza. I polpastrelli sfioravano il tessuto della camicia azzurra. Lui restava immobile, indifferente alle sue mani che volavano da un bottone all’altro, sciogliendone l’abbraccio dell’asola. Scostando e attirando a sé i due lembi della camicia, si era avvicinata un po’ alla sua nuca, respirandovi sopra, aspirandone il profumo. E lui era trasalito. Leggermente, controllandosi, ma era indubbio il breve tremito della pelle. Le aveva permesso di spogliarlo così, senza che lui partecipasse, se non alzando i piedi in fretta, per liberarsi dei pantaloni. Glieli aveva abbassati velocemente, senza indugiare né sulla cintura né sulla cerniera. Ma adesso che era in slip, si era fermata. Lo fissava. E lui sentiva i suoi occhi, senza la certezza di dove fossero posati. Rifiutava ancora di voltarsi. Aspettava. Era stato allora che si era ricordata della fame. Qualcosa la sollecitava. Non lo stomaco, chiuso a nodo dall’emozione. Non la gola, secca d’ansia. La bocca nemmeno, asciutta di paura. E d’un tratto aveva capito. I denti. I suoi denti smaniavano candidi e lucenti. Li vedeva riflessi nella finestra, sulla spalla di lui. Sorridendo li aveva messi in risalto, osservandoli. Aguzzi, bianchi. Affamati. Aveva allargato il sorriso, sicura che anche lui li guardasse. E aveva indovinato. Lui tremava, ora. Tremava e aumentava i respiri. Allora gli aveva tolto gli slip, abbassandoli con furia. Poi aveva puntato le unghie sui suoi fianchi, spingendo adagio, sempre più a fondo. Mentre i suoi denti poggiavano sulla spalla, spingendo adagio, sempre più a fondo. La prima goccia era apparsa, improvvisa e brillante. Minuscolo rubino goloso, invitante. Era sorpresa, perché lui non aveva accennato ad un movimento, nemmeno un tremito più forte. Però, ascoltando il suo respiro, si era accorta che era rallentato. Ma più profondo. La pelle, quella di lui, si stava scaldando. Le mani, le sue mani, non erano più fredde. Erano calde. Con la punta della lingua aveva assaggiato la piccola goccia immobile. L’aveva raccolta pian piano, portandola subito al palato, chiudendo le labbra, quasi avesse paura di sentirla sfuggire. E il gusto le era piaciuto. Le dita avevano percorso i suoi fianchi, senza arrestarsi, fino al suo ventre e scivolando ad incontrare il suo sesso. Turgido. Lui aveva avuto un breve gemito. Le ciglia arcuate e scure sbattevano in modo impercettibile. Spasmi leggeri, come stesse sognando. Ancora i suoi denti avevano fatto presa sulla pelle profumata di tabacco, dapprima affondando adagio, poi fermandosi, ritraendosi come per un ripensamento. Quindi mordendo, stritolando senza misericordia quel lembo di carne soda, ma cedevole. Un gusto nuovo le aveva riempito la bocca, un gusto ricco di succhi vivi, palpitanti. E, mentre lui gettava un grido chinando il capo indietro, lei aveva succhiato avida quegli umori. Famelica. Attaccandosi come una sanguisuga, aveva continuando a spremere e succhiare, lisciando con la lingua quel pezzo di lui tutto suo. Solo suo, in quell’istante.
Le mani di lui sulle sue natiche. La stava stringendo a sé, avvinghiandola contro il suo corpo teso. Allora si era spinta in avanti spalancando la bocca, ampliando la presa delle labbra, che esploravano avide il collo di lui, incontrando l’inizio della barba ispida, fuggendone alla ricerca della carne morbida.
Era stato lui a guidarle le mani. Una l’aveva avvolta intorno al sesso, coprendola con la sua, forte e impaziente, muovendola veloce su e giù. L’altra l’aveva voluta contro il suo ventre. Non la mano aperta. Le unghie. Solo le unghie schiacciava contro la pelle. E lei lo aveva assecondato. Anche nel sogno sentiva le unghie lacerare la pelle e venire investite dal tepore umido del sangue. Le era parso di sguazzare muovendo un po’ le dita. Il suo lamento alto e forte l’aveva fermata. Solo un attimo. Le aveva abbarbicate nella sua carne, provando un brivido sconosciuto. Poi tutto si era arrestato. Lui le scostava le mani, piano, con una smorfia di dolore. Lei osservava il suo profilo emergere nella luce opaca, gli occhi aprirsi e scansare i suoi. La fronte appoggiata alla finestra, la schiena dritta, ostile. La sua voce irremovibile.
“Vattene.”
Una parola sola. Lo aveva ancora fissato, per imprimere nella memoria quel corpo negato, che era riuscita a violare a modo suo. Si era guardata le mani. Le unghie impregnate di sangue. Le aveva portate alle labbra, leccandole una ad una. Sollevando l’altra mano, ruotandola verso la luce, qualcosa luccicava. E ancora la fame. Da placare come ormai sapeva, come ormai aveva imparato. Strisciando la lingua sul dorso della mano, a raccogliere ciò che restava di lui, di una giornata di pioggia. Di un incontro al buio.
Poco più di nulla.