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Dama

Il porto questa notte è illuminato da luci soffuse, la nebbia, dolcemente, lambisce i colli alle mie spalle ed inumidisce i leggeri abiti che a malapena coprono il mio corpo. Da quella finestra, il profumo di salsedine sale inebriante ed inonda le narici, il cuore e la mente. I ricordi si susseguivano a ritmo incalzante, la luce del faro, da lontano, scandisce il passaggio delle immagini che come un film muto vorticano negli occhi dell’anima.
Come giunsi in questo luogo, non mi è dato confessare. Come divenni ciò che sono, non mi è dato spiegare…
Attorno a me nessuno a parte quel piccolo topolino che rapido corre da un angolo all’altro della fetida stanza. Un angusto locale in affitto, una misera casa. Chi è come me non ha neppure il diritto d’avere dimora.
Era l’anno di grazia 1795. Sulle rive del Danubio una fanciulla vestita di velluto scarlatto passeggiava portando una rosa rossa tra le dita della mano destra.
Nascosta in piccolo viottolo, osservavo il lento incedere dei suoi passi leggeri.
Un viso familiare, ricordi che innescavano sensazioni che da anni inseguivo come il bimbo insegue l’aquilone. Tremavo avvolta nelle vesti leggere ma non era il freddo scuotere il mio esile corpo, quella figura pareva uscita da un libro mai scritto, il testo che nella mia memoria si componeva di versi maledetti e imploranti supplice. Lentamente quell’apparizione giunse vicino al mio nascondiglio, il volto appariva nitido e chiaro in tutta la sua fierezza e beltà.
Gli occhi profondi di un grigio intenso, le labbra carnose, il collo ben levigato e le guance paffute. Ogni viandante che incrociava i suoi passi, quasi fosse stregato, voltava il capo in contemplazione di si grande bellezza. L’incanto di quell’occhio triste e mesto soggiogava la volontà di chiunque cercasse di carpire il pensiero che solingo nascondeva la sua essenza dietro palpebre di mandorla. Fiocchi di neve leggera cadevano lenti sul viso e la brezza pungente feriva le mani.
Vedevo quella figura farsi strada tra la piccola folla che animava il viale adornato di ghirlande natalizie, detestavo quel periodo dell’anno, troppi ricordi solleticavano la mia mente, dolori mai passati, ferite mai rimarginate continuavano a sanguinare nell’anima mia dannata. Un camino, un albero addobbato e i giochi di bimba. Troppo arduo questo pensiero, troppo mesto il vagare per lande ormai lontane. Avvolta nel mio mantello blu notte, rimiravo quella figura, il cappuccio copriva i neri e folti capelli che in morbide onde cadevano sulle spalle. La candida veste non s’addiceva al mio spirito demoniaco ma questo mi era dato indossare, poveri stracci che il tempo, suo malgrado, ha logorato. Le pieghe ed i fronzoli che adornavano il mio abito non esistevano più, solo qualche fiocco resisteva alle intemperie della sorte. La figura avanzava lenta ed inesorabile, sapevo che sotto quelle vesti scarlatte si celava il segreto che per anni avevo cercato. Un passo ed uscii da quel rifugi
o, il viso abbassato per non incontrare lo sguardo inquisitore di sconosciuti che al mio passaggio si fermavano ad osservare. Sono strana, cosi, un’esile figura avvolta in un vecchio mantello passato di moda.
Quante volte mi sono chiesta quale pensiero prendesse forma nella mente umana al mio passaggio, sfiorare quei fianchi, percepire l’essenza dell’umana natura, per me, era come essere inondata di vita, guardare dritto negli occhi il creatore. Repentine domande, subitanei dubbi prendevano il posto delle spavalde certezze, sicurezze non umane, tramutate in vaghe apparenze. In fondo, anche il mio essere era pura apparenza, null’altro che il riflesso di una solitudine cercata, anelata ed in fine, amata. Domande senza pretesa, da tempo non rivolgo parola a sconosciuto, il mio cercare si è tradotto in sublime osservazione. Se solo l’uomo potesse immaginare ciò che i miei occhi hanno visto, io vedo l’anima, vedo ciò che non è dato sapere. L’alba era vicina, una campana emetteva il suo urlo straziante ed io, impavida creatura stavo ferma, immobile appoggiando la scarna mano al muro che separa questa via dal nero fiume che ha nome Danubio.
In quell’istante, mentre mille pensieri inondavano la mente, la ragazza con rosa rossa mi passò accanto. Il mio cuore subì una lacerazione improvvisa, sentivo gocce di rosso liquido colare tra le carni ormai defunte. Tremavo, il gelo invernale aveva intorpidito le membra. Per quanto inumana, percepivo il variare della temperatura, lo percepivo come mai nella mia esistenza mortale avevo sperimentato. Udivo il fruscio delle sue vesti, il tulle che reggeva l’ampia gonna strofinava le sue fibre emettendo un sordo rumore. Impietrita, immobile come statua di marmo, la mia pelle pallida e trasparente lasciava intravedere le vene che un tempo recavano linfa vitale a questo corpo. Pulsavano le tempie, fremevano le mani e senza accorgermi del dolore, strinsi il pugno infilzando con le lunghe unghie il palmo. Gocce rosse colavano tra le dita, scendevano lente fino al balzo ed a terra la neve copriva i ciottoli ed il mio sangue si mescolava a quel candore.
La fanciulla era a pochi passi da me. Assorta nei mie languidi pensieri non riuscivo a smuovere le gambe da quella posizione ma, improvvisamente, qualcosa scosse il torpore, dalle rosse labbra di quella magnifica creatura, un sussurro spezzò l’incantesimo. “Vera…sei tu, dimmi che sei tu”
Il mio cuore sobbalzò, quella voce cosi familiare, una melodia che da bambina aveva accompagnato le mie notti insonni, svegliò improvvisamente la mia anima dal suo sonno eterno.
Mi voltai ed il suo viso s’illuminò, era lei, mia sorella, compagna di sogni proibiti. Non riuscivo a proferir parola, un nodo alla gola impediva alla favella di prendere forma. Potevo solo pensare. “Quanto tempo ti ho cercata, quante città ho girato esplorando ogni anfratto alla ricerca del mio cuore spezzato. Avevo già perso ogni speranza quando eccoti, sorridente, reale, vestita di velluto scarlatto. Sei bella sorella mia, sei sempre stata un fiore di campo”.
Trovai in me la forza di muovere un passo in sua direzione, cercai di donare al mio volto marmoreo un sorriso al quale non ero abituata. Avanzavo come sospesa nell’aria, una leggerezza che avevo scordato s’impossessò del mio essere. La bimba che mi stava innanzi era ciò che per anni avevo cercato, qualcosa che nel profondo del cuore avevo dato per perso.
La mia mano si posò sul tuo viso ed accarezzando le morbide guance avvicinai le labbra a quella pelle di pesca. Un bacio, dopo tanto tormento ed anni di solitudine, tornavo a percepire il calore di un corpo, l’umana natura cosi avvolgente ed affascinante. Il palmo sfiorava quella figura, dal volto scendeva sulle spalle fino a giungere al suo fianco. Afferrai con decisione quella piccola anca, non servivano parole per esprimere la gioia di quell’incontro. I suoi occhi nei miei, come rapiti, ammaliati da un potere che la creatura non poteva conoscere.
Indietreggiai qualche passo ed ella seguì le mie orme, era inebriata dal fascino che la mia figura per quanto tetra, emanava. Figa
Una rabbia improvvisa invase la mia coscienza, come potevo agire in quel modo con lei, mia sorella, la fanciulla che per anni ho cercato disperatamente e che nei sogni donava quel poco di serenità che rendeva il mio esistere meno oscuro. Pensieri, troppi, quanti pensieri. Lotte interiori nello spazio di un attimo, l’umana natura che ancora albergava nel mio corpo dannato cercava una via per prendere forma mentre la demoniaca mia essenza cacciava ed imprecava affinché quel poco d’amore che sussisteva nonostante il fato, soccombesse sotto pesanti colpi di spada. Trascinai quella fragile figura nell’anfratto che mi aveva tenuta lontano dal passaggio di anime, un vicolo chiuso ove luce non filtrava, il buio era la mia casa, la notte mia signora e le tenebre il solo conforto. Tra i bagliori lontani della città, voci allegre scandivano il ritmo del mio respiro. La mia mano cingeva il suo fianco “mia dolce fanciulla tu non parli, non dici nulla, mi osservi impietrita” pensavo.
Un bustino di raso stringeva il suo corpo evidenziando le tue morbide curve, “sei cresciuta eppure sei sempre la stessa. Dovrei raccontare mille avventure, mille aneddoti ma non un filo di voce esce dalla gola, in quest’istante il mio unico pensiero sei tu candida vestale. Mi osservi, la mia pelle è candida come la neve, i miei occhi cerchiati di un rivolo rosso…” “Sangue!” Un urlo straziante spezzo l’incantesimo. Prontamente portai la mano sulle sue labbra e finalmente, dalla mia bocca uscirono suoni che il tempo aveva calcificato nell’anima.

“Non fuggire, non scappare, ascolta sorella mia, non mi riconosci, ne sono consapevole, non sono più io, ma non temere, non voglio farti del male”

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