Capodanno del 1983: mi contemplo con qualche brufolo e qualche capello (ma non tanti) in più. Non qualche sprazzo di grigio sulle tempie, ma il castano chiaro della giovinezza, su di un volto improntato alla gioia di vivere. Gli occhi sono rimasti quelli di sempre, azzurro-verde e molto curiosi: in sostanza un ragazzo intrigante che ha lasciato il passo ad un uomo, dicono, affascinante.
Io, giovane di belle speranze, ero ancora a secco di esperienze sessuali, vivevo di sogni erotici e mi esercitavo nella nobile arte della “Palestra dell’Amore”, come Woody Allen chiama la masturbazione.
Il ragazzo timidissimo che era in me fantasticava, ma non portava a termine le sue (non tanto) precoci fantasie, spurgando il suo arnese con una regolarità consona ai suoi 18 anni…
Solita storia: a Capodanno non avevo una ragazza e mi impegnavo al massimo ad organizzare il classico Cenone con i soliti amici. Solito posto, solita compagnia, ma stavolta qualcosa pareva non andare per il verso giusto, in quanto Antonio, che metteva a disposizione il suo garage per feste tra amici, proprio stavolta era stato battuto sul tempo dal fratello maggiore nella prenotazione del locale di famiglia.
Poche alternative di fronte a me, il Cenone con i parenti, da me sempre snobbato con vigore si avvicinava. A darmi una speranza ci pensò mia sorella:
”Perché non ti aggreghi a noi, ci saranno un bel pò di amici”
Tra me ripensavo a questo invito che dava a mia sorella anche l’alibi di restare fuori casa un’intera notte. Ripensavo anche al fatto che, comunque, tra gli amici che lei mi citava non ci sarebbero state che coppie trentenni: il massimo per un ragazzo a secco da sempre e con il testosterone abbondantemente al di sopra del livello di guardia.
Senza alternative replicai con sufficienza:
“Non ti preoccupare, tanto qualcosa fine alla fine salterà fuori”.
Infatti.
Il 31 pomeriggio trasportavo svogliato bottiglie di liquori e birra, maledicendo la malasorte e la mia timidezza… Dovevo ammettere, mio malgrado, che la festa era stata comunque bene organizzata, e poi sfortunato in amore, fortunato al gioco, avrei ripulito a sette e mezzo le tasche degli amici di mia sorella.
La festa si svolgeva a casa dei miei, che ci lasciavano campo libero, andando a festeggiare a casa di mia zia. Cibarie ed alcolici non sarebbero mancati e poi giocare a carte era la mia passione segreta.
Gli “amici” cominciarono ad arrivare intorno alle 21 e, come c’era da aspettarsi, erano tutti rigorosamente accoppiati.
Li aiutai a parcheggiare nel garage di famiglia e li accompagnai a casa.
Mi furono tutti presentati e non mancò di colpirmi una bionda trentenne, Maria, che però, ahilei, era sposata ed addirittura in attesa del secondo bambino. Riducendo in progressione il target sessuale appuntai la mia attenzione su di un’altra trentenne, anch’essa sposata e con prole: Olympia. Accompagnata dal marito e da un simpatico frugoletto, mi appariva perlomeno interessante (poi si sa: a 18 anni non si va tanto per il sottile).
Greca di nascita, una massa di capelli crespi e scuri incorniciava un bel visino, con un sorriso imbarazzantemente accattivante. Un corpo sodo e polposo si intuiva al di sotto di uno striminzito vestitino di velluto nero. Il retro della figura era assolutamente in linea. E poi volete mettere, l’accento straniero mi faceva sognare.
Decisi di non forzare gli eventi, almeno per il momento. La prima parte della festa filò senza infamia e senza lode, tra libagioni contenute (mia sorella comunque mi sorvegliava) e buon cibo e soprattutto con Olympia a meno di 30 cm da me. Caso aveva voluto che fossimo capitati vicini di sedia: ricordo che scambiammo anche qualche battuta ed entrando in un clima di relativa familiarità.
Venne il momento di giocare a carte, nell’attesa del fatidico scoccare della mezzanotte: i veri uomini si raccolsero nel salotto dove iniziarono a giocare a Poker.
Quel gioco mi era comunque interdetto, così optai per un più familiare saltacavallo. La natura stessa di questo gioco imponeva una certa segretezza: non di rado capitava, infatti, di rifilare una pessima carta proprio ai confinanti…
La fortuna però non mi assisteva che a sprazzi e la mia concentrazione sul gioco era ai minimi storici, perché tutta la mia materia grigia era intenta nella risoluzione di come rendere nulli quei fatidici 30 cm… Le gambe ed il busto si muovevano di un millimetro al minuto verso la mia calda preda, Olympia.
“Che fai, mi dai la carta” mi disse proprio lei.
Non avevo che da darle una pessima carta, ma bluffai, millantando un ottimo regalo.
Scambiammo le carte: lei si imporporò quando scoprì che le avevo “ammollato” un asso, mettendola fuorigioco. Che il suo imporporarsi fosse dovuto anche all’annullamento finale della distanza tra i nostri corpi?
Non rifuggiva il contatto ma nemmeno lo incoraggiava: cominciai la seconda parte delle grandi manovre strategiche strusciando la mia gamba contro la sua con un ritmo che non poteva essere casuale.
“Ho visto che sei fuori dal gioco, perché non giochi insieme a me? Mi sento un po’ colpevole per l’asso che ti ho mollato…” feci io gentile.
“D’accordo” rispose lei nel suo stentato italiano.
Conseguenza di quell’accordo fu un ulteriore ravvicinamento dei nostri corpi che, annullata ormai la distanza, aumentavano la pressione reciproca. Non riesco a descrivere la mia erezione violenta, tanto più potenziata dal fatto che il giocare assieme, oltre a trasformare la relativa familiarità di poco prima in ammiccante complicità, mi dava modo di approcciare la sua nervosa caviglia con l’esterno della mia mano.
L’intensità di questa carezza mi faceva andare su di giri e assommata al piedino ormai dichiarato faceva aumentare in me la baldanza, verso sempre nuovi traguardi.
Decisi pertanto di osare di più, facendo cadere la mano intenzionalmente sul suo caldo ginocchio. La sua reazione fu di sorpresa ma il temuto ceffone che mi avrebbe marchiato come “rattuso” a vita non arrivò, ma il suo sorriso fu più eloquente di mille figure di merda. Touchè.
La sua mano quasi con riluttanza (io almeno così speravo) alleggerì con grazia il suo ginocchio. Mi ritrovai al punto di partenza, ma almeno ora sapevo che non si sarebbe arrabbiata, né avrebbe fatto una scenata. L’onore sarebbe stato comunque salvato dalla sua discrezione, ma i miei ormoni urlavano.
Olympia mi chiese:
“Scusa dov’è il bagno?”
“Ti ci accompagno”
“Sei gentile, ma non è necessario”
“Nel corridoio la prima porta a sinistra”
Lei si alzò e mi sfilò davanti, con una (intenzionale?) strusciatina del suo polposo fondoschiena (a proposito, vi ho detto che era polposo), andando verso il bagno.
Con furbizia raggiunsi anch’io il bagno dopo 30 secondi scarsi. Adottai la tattica che a volte avevo adottato anche con mia sorella: il tanto collaudato buco della serratura mi fu amico e mi fornì una panoramica minuziosa della sua folta peluria e del suo seno abbondante. Ebbi il sospetto che lo show fosse indirizzato a me e la mano scivolò verso il bozzo che prorompeva dai miei jeans. Che civetta, lei si toccava e la mia scarsa esperienza in queste faccende non mi faceva capire appieno quello che stava succedendo.
All’improvviso si rimise le striminzite mutandine nere e si rinfilò il vestito.. Con
agilità raggiunsi la mia cameretta e la guadai, non visto, uscire. Raggiunsi la porta del bagno e, per non saper né leggere né scrivere, sfilai la chiave, ritornando al mio posto e recuperando le distanze (nulle) che mi separavano da quella donna calda.
Ero eccitato. Con una deliberata faccia tosta, approfittando della successiva mano di carte, stringendole le mani sotto al tavolo, le dissi:
“Dai teniamola insieme nascosta la carta. Questa è la volta buona. Non trovi?”
Il mio spirito guascone, dopo una vita passata all’insegna della timidezza, si risvegliava, anzi, per meglio dire, si svegliava. Prenderle le mani ed appoggiarle con spavalderia sulle sue cosce tornite fu tutt’uno. Lei non si sottrasse.
Le mie mani spaziavano con discrezione sulle sue cosce ed ebbero modo di appurare ciò che i miei occhi sospettavano già da tempo: le calze nere che le inguainavano non erano che autoreggenti: meglio ancora che nei miei più fantasiosi sogni di onanista. Chissà poi perché gli uomini tendono ad identificare la disponibilità di una donna da un particolare così; strano il modo di funzionare della mente dell’uomo.
Ormai avevo trovato il modo di accarezzare il sottocoscia che non era protetto dal velo delle calze: era la prima volta che toccavo la carne di una donna ed questo contatto mi appariva delizioso, anche a causa della situazione. Il palpeggio appagava entrambi, almeno per il momento, e ci spingeva verso nuove intimità, con il suo seno (vi ho detto che lo trovavo mooolto prosperoso?) che premeva contro la mia spalla. Nel frattempo non perdevo occasione di tastarne la compattezza con il mio gomito malandrino.
Il palpeggio era ormai libero, ma discreto: eravamo pur sempre in una tavolata di circa 20 persone!!! Il timido ragazzo si era trasformato in un ardito marpione ottomano.
Continuammo a “giocare a carte” fino allo scoccare della mezzanotte e indovinate chi fu la prima cui augurai Buon Anno, iniziando l’anno nuovo con la prima manomorta-su-polposo-posteriore-femminile?
Dopo la mezzanotte mia sorella mise della musica e smorzò le luci. Il gruppo era composto da una quindicina di coppie ed io ero l’unico single: mi diedero di conseguenza una bottiglia e cominciarono le danze. Guardavo Olympia che ballava con Antonio, il marito e provavo una punta di gelosia. Mi avvicinai a loro e amabilmente porsi la bottiglia ad Antonio, che accettò con un sorrisetto. Io ero ingenuo e non potevo capirne il significato. Pensavo solo al fatto che finalmente mettevo le mani sulle rotondità tanto agognate e col crisma di una “quasi ufficialità”. Sfruttando le zone d’ombra, nel momento in cui lei non dava la schiena a nessuno, ne approfittavo per palparle l’ampio e sodo sedere, e le sussurravo tenere parole del tenore di:
“Che culo morbido che hai”
Lei sorrideva compiaciuta facendo finta di non comprendere, la civetta.
“Eccoti la bottiglia”
Era stato proprio Antonio a rompere l’incantesimo. Feci buon viso a cattivo gioco e ballai con Maria, ma nonostante le sue buone intenzioni (cercava di stringersi a me con tenacia) tra di noi c’erano 8 mesi di troppo. Arrivai a fare l’ecografia al suo bambino, ma nulla più di qualche furtivo contatto con le sue floride mammelle da quasi mamma.
Ripresi il controllo della bottiglia e andai nuovamente a spodestare Antonio, che parlottava, ballando con la moglie. Un’energica manomorta tormentava il suo posteriore, mentre il mio turgore faceva conoscenza con quanto avevo furtivamente rapito dalla toppa del bagno. Il seno era oramai a ridosso del mio torace che ne saggiava la sofficità, mentre i suoi capezzoli ormai di ferro temprato, parevano voler bucare la stoffa del suo vestito per penetrarmi nella carne.
“Dai ritorniamo a giocare”
Era ancora quel cacacazzo di Antonio che, con malcelata ironia, approfittando della fine dell’ultimo lento, accese le luci e ci fece tornare a giocare.
Il resto della nottata passò nel nulla più insensato, con Antonio costantemente a fianco di un’Olympia sempre distante.
Riuscii a toccarle ancora l’oggetto dei miei desideri, non visto, ma fu puro caso.
Verso le sei del mattino, il solito perdigiorno di ogni compagnia che si rispetti,
esordì, in mezzo ad occhi ormai sepolti dal sonno, con una patetica idea:
“Ragà, c’andiamo a prendere i cornetti caldi al bar qui sotto?”
L’incredulità si dipinse sui volti di tutti, ma la voglia di vincere la noia ebbe la
meglio. Mentre tutti si preparavano, captai che Antonio diceva alla moglie:
“Olì, mi vai a prendere gli occhiali in macchina, che mi tolgo le lenti a contatto”
“Si, ma non so esattamente dov’è”
I miei ormoni si coalizzarono con i miei neuroni ancora accesi (sonno apparente ormai) e, analizzata la situazione in un batter di ciglia, mi offersi:
“Se vuoi ti ci accompagno”
“Amò, per cortesia fatti accompagnare che ho gli occhi veramente stanchi”
“Va bene, va bene, andiamo” acconsentì alla fine lei.
Ci incamminammo soli verso il garage che distava circa 500 metri dalla casa ed io, accampando la scusa che sarebbe potuta cadere a causa dei vetri rotti che tappezzavano la strada, le offersi il braccio, cui lei festosamente si appoggiò. A dire il vero anche il suo seno si incastrò nel mio braccio pregato, riportando nuovamente i miei livelli di testosterone alla stessa quota orbitale dei satelliti geostazionarii. Mi costò abbastanza contenermi, ma eravamo in vista.
Arrivammo al garage ed entrammo. Olympia aprì la portiera della sua macchina e si inginocchiò sul sedile, quasi a porgermi, come ultragradito regalo, il suo deretano (ah, vi ho detto che era polposo”?)
Non ci vidi più, inesperto, goffo e naïve negli approcci, lo abbrancai, mentre lei mormorava deboli scuse, protendendo maggiormente le sue polposità posteriori.
“Antonio potrebbe vederci, dai smettila, non mi va, sei così giovane”
I miei ormoni imperavano, non capivo più nulla, nelle mie orecchie pistoni dei motori diesel di una corazzata fischiavano senza posa. Le alzai la gonna e le scostai la mutandina, iniziando, goffamente, a toccare per la prima volta la prugnetta rosa di Olympia, alla ricerca della sua intimità recondita. Si vede che ebbi la fortuna del principiante, perché le sue scuse prima diventarono sempre più flebili, poi affannose, per tramutarsi in grida di piacere una volta che per caso le sfiorai il bottoncino magico, che si annidava duro e nervoso tra le sue grandi labbra.
La lezione fu imparata con rapidità, e mentre continuavo questo sfregamento che tanto le stava dando, esploravo con l’altra mano i due buchetti vicini e caldi. Tanto l’uno era grande ed umido, tanto l’altro era piccolo ed asciutto. Li penetrai entrambi con le dita spinto dall’istinto e lei venne con un grido amplificato dal silenzio innaturale delle sei di mattina.
Fu anche l’istinto che mi spinse a sguainare la spada ed accostarla al suo piacere. Il solo contatto con quelle parte calde ed umide fu sufficiente ad inondarle. Lo sperma, imbottigliato da una serata all’insegna delle provocazioni erotiche sgorgò copioso e la innaffiò di bianco sapore.
Ancora incredulo la sentii mormorare, con un tono di voce che non ammetteva dubbi:
“Che spreco, ora ti pulisco io”
La porca, non saprei come definirla altrimenti, si girò e si infilò nel gargarozzo il mio arnese, ancora in buono stato di irrigidimento, succhiandolo e strabuzzando gli occhi. L’aspirazione era veramente efficace e pompò nuova linfa nel mio attrezzo, ringalluzzito anche da uno sconvolgente gioco di lingua.
Ma il massimo fu quando quella porca intinse le sue mani nelle sue parti intime e le ritrasse grondanti dei reciproci umori. Con aria di sfida si sfilò l’arnese dalla bocca e si ripulì per bene l’altra mano, nettandosi in veloci riprese la sua cosina. Si stava praticamente facendo una “scarpetta di sborra”.
Era troppo, la mia inesperienza svanì di colpo e mi ritrovai a pompare velocemente la sua gola, tenendole la testa con energia ed eiaculandole direttamente nell’esofago tutto il mio giovanile ardore.
Restai come folgorato, mentre la buongustaia dava un’ultima strizzata alla mia moscità, succhiando voluttuosamente le ultime stille d’amore.
Senza una parola si ricompose e, come se nulla fosse richiuse la macchina e si avviò verso l’uscita del garage. Guardando l’orologio mi accorsi che erano passati ben 15 minuti: un tempo enorme da giustificare con il resto della comitiva. Questa consapevolezza non lasciò tracce nella baldanza di avere “posseduto” una donna stupenda e voluttuosa. Niente male come prima volta!!!
Uscimmo dal garage ed arrivammo al bar. Fu Antonio il primo a chiedere conto, anche se con una smorfia tra il divertito ed il malizioso, del tempo che noi avevamo trascorso in garage:
“E allora, noi abbiamo sentito anche un grido in questo quarto d’ora: non sono un po’ troppi per un paio di occhiali?”
La mia mente andava al grido di lussuria di Olympia, che ebbe una sorprendente prontezza di spirito:
“Sai caro, il garage era buio ed io ha preso una storta alla caviglia.”
“Ed io scommetto che questo gentile e bel ragazzo ti ha fatto un massaggetto sulla bua, eh?” disse strizzandomi l’occhio.
Assentii ma continuavo a non capire lo strano atteggiamento di Antonio: che avesse capito mi pareva evidente, ma poteva anche esserne contento?
“Cara, vuoi un cappuccino ed un cornetto?”
“Prenderò solo un cornetto, non ho più sete” rispose lei.
Fu la mia immaginazione che mi spinse a vedere la sua lingua che lascivamente lucidava le labbra che tanto piacere mi avevano dato poco prima? O fu realtà?
Antonio continuò con i discorsi strani:
“Sei un bel ragazzo, chissà quante ragazze hai avuto e quante ti stanno dietro”
Olympia assentiva divertita, mentre il mio imbarazzo aveva nuovamente ceduto il posto ad una sana spavalderia. Millantai tante conquiste.
“Ci servirebbe proprio un giovane prestante come te nella nostra squadra di calcio, perché non vieni a giocare con noi?”
Assentii.
“Potresti restare nostro ospite la sera…”
Assentii ancora e ci scambiammo il numero di telefono, salutandoci. La settimana dopo ci risentivamo e andai a giocare a pallone nella sua squadra, vincendo anche un ambito premio, ma questa è un’altra storia…